Riflessioni

 

Dal messaggio di papa Francesco per la giornata dei poveri
Viaggio Apostolico di Sua Santità Francesco in Iraq
Comunione sulla lingua e nella mano, precisazioni per i tempi del coronavirus
Sogno comunità aperte, umili, cariche di speranza
Momento straordinario di preghiera in tempo di epidemia
Pregare in questo tempo
Come celebrare l’Eucaristia al tempo del Coronavirus?
Una opportunità di conversione? – Lettera del parroco


Dal messaggio di papa Francesco per la giornata dei poveri

“…Davanti ai poveri non si fa retorica, ma ci si rimbocca le maniche e si mette in pratica la fede attraverso il coinvolgimento diretto, che non può essere delegato a nessuno. A volte, invece, può subentrare una forma di rilassatezza,  che  porta  ad  assumere comportamenti non coerenti, quale è l’indifferenza nei confronti dei poveri (…)

Nulla di più nocivo potrebbe accade- re a un cristiano e a una comunità dell’essere abbagliati dall’idolo della ricchezza, che finisce per incatenare a una visione della vita effimera e fallimentare.

Non si tratta, quindi, di avere verso i poveri un comportamento assistenzialistico, come spesso accade; è necessario invece impegnarsi perché nessuno manchi del necessario. Non è l’attivismo che salva, ma l’attenzione sincera e generosa che permette di avvicinarsi a un povero come a un fratello che tende la mano perché io mi riscuota dal torpore in cui sono caduto (…)

L’esperienza di debolezza e del limi- te che abbiamo vissuto in questi ulti- mi anni, e ora la tragedia di una guerra con ripercussioni globali, devono insegnare qualcosa di decisivo: non siamo al mondo per sopravvive- re, ma perché a tutti sia consentita una vita degna e felice. Il messaggio di Gesù ci mostra la via e ci fa scoprire che c’è una povertà che umilia e uccide, e c’è un’altra povertà, la sua, che libera e rende sereni (…)”.

 

 

Viaggio Apostolico di Sua Santità Francesco in Iraq

INCONTRO INTERRELIGIOSO
Piana di Ur
Sabato, 6 marzo 2021

DISCORSO DEL SANTO PADRE

Cari fratelli e sorelle,

questo luogo benedetto ci riporta alle origini, alle sorgenti dell’opera di Dio, alla nascita delle nostre religioni. Qui, dove visse Abramo nostro padre, ci sembra di tornare a casa. Qui egli sentì la chiamata di Dio, da qui partì per un viaggio che avrebbe cambiato la storia. Noi siamo il frutto di quella chiamata e di quel viaggio. Dio chiese ad Abramo di alzare lo sguardo al cielo e di contarvi le stelle (cfr Gen 15,5). In quelle stelle vide la promessa della sua discendenza, vide noi. E oggi noi, ebrei, cristiani e musulmani, insieme con i fratelli e le sorelle di altre religioni, onoriamo il padre Abramo facendo come lui: guardiamo il cielo e camminiamo sulla terra.

1. Guardiamo il cielo. Contemplando dopo millenni lo stesso cielo, appaiono le medesime stelle. Esse illuminano le notti più scure perché brillano insieme. Il cielo ci dona così un messaggio di unità: l’Altissimo sopra di noi ci invita a non separarci mai dal fratello che sta accanto a noi. L’Oltre di Dio ci rimanda all’altro del fratello. Ma se vogliamo custodire la fraternità, non possiamo perdere di vista il Cielo. Noi, discendenza di Abramo e rappresentanti di diverse religioni, sentiamo di avere anzitutto questo ruolo: aiutare i nostri fratelli e sorelle a elevare lo sguardo e la preghiera al Cielo. Tutti ne abbiamo bisogno, perché non bastiamo a noi stessi. L’uomo non è onnipotente, da solo non ce la può fare. E se estromette Dio, finisce per adorare le cose terrene. Ma i beni del mondo, che a tanti fanno scordare Dio e gli altri, non sono il motivo del nostro viaggio sulla Terra. Alziamo gli occhi al Cielo per elevarci dalle bassezze della vanità; serviamo Dio, per uscire dalla schiavitù dell’io, perché Dio ci spinge ad amare. Ecco la vera religiosità: adorare Dio e amare il prossimo. Nel mondo d’oggi, che spesso dimentica l’Altissimo o ne offre un’immagine distorta, i credenti sono chiamati a testimoniare la sua bontà, a mostrare la sua paternità mediante la loro fraternità.

Da questo luogo sorgivo di fede, dalla terra del nostro padre Abramo, affermiamo che Dio è misericordioso e che l’offesa più blasfema è profanare il suo nome odiando il fratello. Ostilità, estremismo e violenza non nascono da un animo religioso: sono tradimenti della religione. E noi credenti non possiamo tacere quando il terrorismo abusa della religione. Anzi, sta a noi dissolvere con chiarezza i fraintendimenti. Non permettiamo che la luce del Cielo sia coperta dalle nuvole dell’odio! Sopra questo Paese si sono addensate le nubi oscure del terrorismo, della guerra e della violenza. Ne hanno sofferto tutte le comunità etniche e religiose. Vorrei ricordare in particolare quella yazida, che ha pianto la morte di molti uomini e ha visto migliaia di donne, ragazze e bambini rapiti, venduti come schiavi e sottoposti a violenze fisiche e a conversioni forzate. Oggi preghiamo per quanti hanno subito tali sofferenze, per quanti sono ancora dispersi e sequestrati, perché tornino presto alle loro case. E preghiamo perché ovunque siano rispettate e riconosciute la libertà di coscienza e la libertà religiosa: sono diritti fondamentali, perché rendono l’uomo libero di contemplare il Cielo per il quale è stato creato.

Il terrorismo, quando ha invaso il nord di questo caro Paese, ha barbaramente distrutto parte del suo meraviglioso patrimonio religioso, tra cui chiese, monasteri e luoghi di culto di varie comunità. Ma anche in quel momento buio sono brillate delle stelle. Penso ai giovani volontari musulmani di Mosul, che hanno aiutato a risistemare chiese e monasteri, costruendo amicizie fraterne sulle macerie dell’odio, e a cristiani e musulmani che oggi restaurano insieme moschee e chiese. Il professor Ali Thajeel ci ha anche raccontato il ritorno dei pellegrini in questa città. È importante peregrinare verso i luoghi sacri: è il segno più bello della nostalgia del Cielo sulla Terra. Perciò amare e custodire i luoghi sacri è una necessità esistenziale, nel ricordo del nostro padre Abramo, che in diversi posti innalzò verso il cielo altari al Signore (cfr Gen 12,7.8; 13,18; 22,9). Il grande patriarca ci aiuti a rendere i luoghi sacri di ciascuno oasi di pace e d’incontro per tutti! Egli, per la sua fedeltà a Dio, divenne benedizione per tutte le genti (cfr Gen 12,3); il nostro essere oggi qui sulle sue orme sia segno di benedizione e di speranza per l’Iraq, per il Medio Oriente e per il mondo intero. Il Cielo non si è stancato della Terra: Dio ama ogni popolo, ogni sua figlia e ogni suo figlio! Non stanchiamoci mai di guardare il cielo, di guardare queste stelle, le stesse che, a suo tempo, guardò il nostro padre Abramo.

2. Camminiamo sulla terra. Gli occhi al cielo non distolsero, ma incoraggiarono Abramo a camminare sulla terra, a intraprendere un viaggio che, attraverso la sua discendenza, avrebbe toccato ogni secolo e latitudine. Ma tutto cominciò da qui, dal Signore che “lo fece uscire da Ur” (cfr Gen 15,7). Il suo fu dunque un cammino in uscita, che comportò sacrifici: dovette lasciare terra, casa e parentela. Ma, rinunciando alla sua famiglia, divenne padre di una famiglia di popoli. Anche a noi succede qualcosa di simile: nel cammino, siamo chiamati a lasciare quei legami e attaccamenti che, chiudendoci nei nostri gruppi, ci impediscono di accogliere l’amore sconfinato di Dio e di vedere negli altri dei fratelli. Sì, abbiamo bisogno di uscire da noi stessi, perché abbiamo bisogno gli uni degli altri. La pandemia ci ha fatto comprendere che «nessuno si salva da solo» (Lett. enc. Fratelli tutti, 54). Eppure ritorna sempre la tentazione di prendere le distanze dagli altri. Ma «il “si salvi chi può” si tradurrà rapidamente nel “tutti contro tutti”, e questo sarà peggio di una pandemia» (ibid., 36). Nelle tempeste che stiamo attraversando non ci salverà l’isolamento, non ci salveranno la corsa a rafforzare gli armamenti e ad erigere muri, che anzi ci renderanno sempre più distanti e arrabbiati. Non ci salverà l’idolatria del denaro, che rinchiude in sé stessi e provoca voragini di disuguaglianza in cui l’umanità sprofonda. Non ci salverà il consumismo, che anestetizza la mente e paralizza il cuore.

La via che il Cielo indica al nostro cammino è un’altra, è la via della pace. Essa chiede, soprattutto nella tempesta, di remare insieme dalla stessa parte. È indegno che, mentre siamo tutti provati dalla crisi pandemica, e specialmente qui dove i conflitti hanno causato tanta miseria, qualcuno pensi avidamente ai propri affari. Non ci sarà pace senza condivisione e accoglienza, senza una giustizia che assicuri equità e promozione per tutti, a cominciare dai più deboli. Non ci sarà pace senza popoli che tendono la mano ad altri popoli. Non ci sarà pace finché gli altri saranno un loro e non un noi. Non ci sarà pace finché le alleanze saranno contro qualcuno, perché le alleanze degli uni contro gli altri aumentano solo le divisioni. La pace non chiede vincitori né vinti, ma fratelli e sorelle che, nonostante le incomprensioni e le ferite del passato, camminino dal conflitto all’unità. Chiediamolo nella preghiera per tutto il Medio Oriente, penso in particolare alla vicina, martoriata Siria.

Il patriarca Abramo, che oggi ci raduna in unità, fu profeta dell’Altissimo. Un’antica profezia dice che i popoli «spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci» (Is 2,4). Questa profezia non si è realizzata, anzi spade e lance sono diventate missili e bombe. Da dove può cominciare allora il cammino della pace? Dalla rinuncia ad avere nemici. Chi ha il coraggio di guardare le stelle, chi crede in Dio, non ha nemici da combattere. Ha un solo nemico da affrontare, che sta alla porta del cuore e bussa per entrare: è l’inimicizia. Mentre alcuni cercano di avere nemici più che di essere amici, mentre tanti cercano il proprio utile a discapito di altri, chi guarda le stelle delle promesse, chi segue le vie di Dio non può essere contro qualcuno, ma per tutti. Non può giustificare alcuna forma di imposizione, oppressione e prevaricazione, non può atteggiarsi in modo aggressivo.

Cari amici, tutto ciò è possibile? Il padre Abramo, egli che seppe sperare contro ogni speranza (cfr Rm 4,18) ci incoraggia. Nella storia abbiamo spesso inseguito mete troppo terrene e abbiamo camminato ognuno per conto proprio, ma con l’aiuto di Dio possiamo cambiare in meglio. Sta a noi, umanità di oggi, e soprattutto a noi, credenti di ogni religione, convertire gli strumenti di odio in strumenti di pace. Sta a noi esortare con forza i responsabili delle nazioni perché la crescente proliferazione delle armi ceda il passo alla distribuzione di cibo per tutti. Sta a noi mettere a tacere le accuse reciproche per dare voce al grido degli oppressi e degli scartati sul pianeta: troppi sono privi di pane, medicine, istruzione, diritti e dignità! Sta a noi mettere in luce le losche manovre che ruotano attorno ai soldi e chiedere con forza che il denaro non finisca sempre e solo ad alimentare l’agio sfrenato di pochi. Sta a noi custodire la casa comune dai nostri intenti predatori. Sta a noi ricordare al mondo che la vita umana vale per quello che è e non per quello che ha, e che le vite di nascituri, anziani, migranti, uomini e donne di ogni colore e nazionalità sono sacre sempre e contano come quelle di tutti! Sta a noi avere il coraggio di alzare gli occhi e guardare le stelle, le stelle che vide il nostro padre Abramo, le stelle della promessa.

Il cammino di Abramo fu una benedizione di pace. Ma non fu facile: egli dovette affrontare lotte e imprevisti. Anche noi abbiamo davanti un cammino accidentato, ma abbiamo bisogno, come il grande patriarca, di fare passi concreti, di peregrinare alla scoperta del volto dell’altro, di condividere memorie, sguardi e silenzi, storie ed esperienze. Mi ha colpito la testimonianza di Dawood e Hasan, un cristiano e un musulmano che, senza farsi scoraggiare dalle differenze, hanno studiato e lavorato insieme. Insieme hanno costruito il futuro e si sono scoperti fratelli. Anche noi, per andare avanti, abbiamo bisogno di fare insieme qualcosa di buono e di concreto. Questa è la via, soprattutto per i giovani, che non possono vedere i loro sogni stroncati dai conflitti del passato! È urgente educarli alla fraternità, educarli a guardare le stelle. È una vera e propria emergenza; sarà il vaccino più efficace per un domani di pace. Perché siete voi, cari giovani, il nostro presente e il nostro futuro!

Solo con gli altri si possono sanare le ferite del passato. La signora Rafah ci ha raccontato l’eroico esempio di Najy, della comunità sabeana mandeana, che perse la vita nel tentativo di salvare la famiglia del suo vicino musulmano. Quanta gente qui, nel silenzio e nel disinteresse del mondo, ha avviato cammini di fraternità! Rafah ci ha raccontato pure le indicibili sofferenze della guerra, che ha costretto molti ad abbandonare casa e patria in cerca di un futuro per i loro figli. Grazie, Rafah, per aver condiviso con noi la ferma volontà di restare qui, nella terra dei tuoi padri. Quanti non ci sono riusciti e hanno dovuto fuggire, trovino un’accoglienza benevola, degna di persone vulnerabili e ferite.
Fu proprio attraverso l’ospitalità, tratto distintivo di queste terre, che Abramo ricevette la visita di Dio e il dono ormai insperato di un figlio (cfr Gen 18,1-10). Noi, fratelli e sorelle di diverse religioni, ci siamo trovati qui, a casa, e da qui, insieme, vogliamo impegnarci perché si realizzi il sogno di Dio: che la famiglia umana diventi ospitale e accogliente verso tutti i suoi figli; che, guardando il medesimo cielo, cammini in pace sulla stessa terra.

 

PREGHIERA DEI FIGLI DI ABRAMO

Dio Onnipotente, Creatore nostro che ami la famiglia umana e tutto ciò che le tue mani hanno compiuto, noi, figli e figlie di Abramo appartenenti all’ebraismo, al cristianesimo e all’islam, insieme agli altri credenti e a tutte le persone di buona volontà, ti ringraziamo per averci donato come padre comune nella fede Abramo, figlio insigne di questa nobile e cara terra.

Ti ringraziamo per il suo esempio di uomo di fede che ti ha obbedito fino in fondo, lasciando la sua famiglia, la sua tribù e la sua patria per andare verso una terra che non conosceva.

Ti ringraziamo anche per l’esempio di coraggio, di resilienza e di forza d’animo, di generosità e di ospitalità che il nostro comune padre nella fede ci ha donato.

Ti ringraziamo, in particolare, per la sua fede eroica, dimostrata dalla disponibilità a sacrificare suo figlio per obbedire al tuo comando. Sappiamo che era una prova difficilissima, dalla quale tuttavia è uscito vincitore, perché senza riserve si è fidato di Te, che sei misericordioso e apri sempre possibilità nuove per ricominciare.

Ti ringraziamo perché, benedicendo il nostro padre Abramo, hai fatto di lui una benedizione per tutti i popoli.

Ti chiediamo, Dio del nostro padre Abramo e Dio nostro, di concederci una fede forte, operosa nel bene, una fede che apra i nostri cuori a Te e a tutti i nostri fratelli e sorelle; e una speranza insopprimibile, capace di scorgere ovunque la fedeltà delle tue promesse.

Fai di ognuno di noi un testimone della tua cura amorevole per tutti, in particolare per i rifugiati e gli sfollati, le vedove e gli orfani, i poveri e gli ammalati.

Apri i nostri cuori al perdono reciproco e rendici strumenti di riconciliazione, costruttori di una società più giusta e fraterna.

Accogli nella tua dimora di pace e di luce tutti i defunti, in particolare le vittime della violenza e delle guerre.

Assisti le autorità civili nel cercare e trovare le persone rapite, e nel proteggere in modo speciale le donne e i bambini.

Aiutaci ad avere cura del pianeta, casa comune che, nella tua bontà e generosità, hai dato a tutti noi.

Sostieni le nostre mani nella ricostruzione di questo Paese, e dacci la forza necessaria per aiutare quanti hanno dovuto lasciare le loro case e loro terre a rientrare in sicurezza e con dignità, e a iniziare una vita nuova, serena e prospera. Amen.

 

 

 

Comunione sulla lingua e nella mano, precisazioni per i tempi del coronavirus


La
riflessione puntuale e molto informata di Iacopo Iadarola, carmelitano scalzo.

Non è affatto un abuso liturgico ricevere la Comunione nella mano, come affermato in maniera incosciente e temeraria da alcuni.

 

L’emergenza creata dal Covid-19 ha fatto affiorare la dolorosa necessità di rivedere le nostre abitudini in ogni campo dell’esistenza, comprese le nostre abitudini liturgiche. Lo scambio della pace durante la celebrazione eucaristica, ad esempio, in base agli accordi presi tra la Conferenza episcopale italiana e il Governo Italiano, è stato sospeso; così come la possibilità di segnarsi con l’acqua benedetta all’ingresso in Chiesa e di ricevere la Comunione sulla lingua. 

Riguardo a quest’ultima pratica, ribadiamo anzitutto la dignità e la bellezza di questa plurisecolare e venerabile tradizione, che evidenzia in maniera quanto mai congrua l’importanza del Santissimo Sacramento e la giusta reverenza che deve essergli tributata nell’atto della sua ricezione. Il ricevere la Comunione sulla lingua è inoltre la norma universalmente indicata dal magistero della Chiesa, e che pertanto in situazione di normalità i fedeli potrebbero sempre liberamente preferire: prima di altre considerazioni, quindi, solidarietà e rispetto, senza frettolosi giudizi, vanno portati a coloro che sinceramente soffrono di non poter ricevere la Comunione in questo modo. 

Al contempo, tuttavia, non si può non ribadire che questa plurisecolare tradizione è appunto una tradizione, non un dogma di fede ma rientrante in quella disciplina ecclesiastica che nella Chiesa è cambiata più volte nei diversi periodi storici e nelle diverse regioni. Com’è risaputo, in Italia e in moltissimi altri Paesi dell’orbe cattolico, la Santa Sede, ovvero la suprema autorità pontificia, ha acconsentito alla richiesta dei Vescovi (secondo una facoltà concessa dalla stessa Santa Sede) a che la Comunione potesse essere amministrata anche nelle mani dei fedeli, secondo un’altra plurisecolare e venerabile tradizione attestata da fior fiore di santi e Padri della Chiesa: tradizione peraltro molto più antica e quindi più «tradizionale» di quella della Comunione data sulla lingua, e non meno nobile e dignitosa. Eccone un paio di attestazioni fra le moltissime che si potrebbero addurre: 

«Quando ti avvicini, non avanzare con le palme delle mani distese, né con le dita disgiunte; invece, fai della tua mano sinistra un trono per la tua mano destra, poiché questa deve ricevere il Re e, nel cavo della mano, ricevi il corpo di Cristo, dicendo “Amen”. Santifica dunque accuratamente i tuoi occhi mediante il contatto con il corpo santo, poi prendilo e fai attenzione a non perderne nulla. Ciò che tu dovessi perdere, infatti, è come se perdessi una delle tue membra. Se ti dessero delle pagliuzze d’oro, non le prenderesti con la massima cura, facendo attenzione a non perderne nulla e a non danneggiarle? Non farai dunque assai più attenzione per qualcosa che è ben più prezioso dell’oro e delle pietre preziose, in modo da non perderne neppure una briciola? Dopo esserti comunicato al corpo di Cristo, avvicinati anche al calice del suo sangue. Non distendere le tue mani, ma inchinato, e con un gesto di adorazione e rispetto, dicendo, “Amen”, santifica te stesso prendendo anche il sangue di Cristo. E mentre le tue labbra sono ancora umide, sfiorale con le tue mani, e santifica i tuoi occhi, la tua fronte e gli altri tuoi sensi. Poi, aspettando l’orazione rendi grazie a Dio che ti ha stimato degno di così grandi misteri» (San Cirillo di Gerusalemme, Vescovo e Dottore della Chiesa [315-386], Catechesi mistagogiche, V, 21-22).

«Dimmi, andresti con mani non lavate all’Eucaristia? Penso di no. Preferiresti piuttosto di non andarci, anziché andare con mani sporche. In questa piccola cosa sei attento, e poi osi andare a ricever l’Eucaristia con l’anima impura? Ora con le mani tieni il Corpo del Signore solo per breve tempo, mentre nell’animo vi rimane per sempre» (San Giovanni Crisostomo, Vescovo e Dottore della Chiesa [350-407], Omelia sulla lettera agli Efesini, 3,4).

Un abuso liturgico?

Ma lungi da noi, e lungi dalla mentalità dei vescovi e dei Papi, voler stabilire una graduatoria delle modalità di ricevere la Comunione nelle regioni in cui da essi stessi è stata autorizzata la duplicità di uso, sulla mano e sulla lingua, quasi che l’una fosse di serie A e l’altra di serie B o viceversa. Ricordiamo ciò soltanto per appurare che la scelta, concordata dai nostri vescovi col Governo Italiano, per l’attuale emergenza, di adottare la Comunione esclusivamente nella mano è la scelta, limitata nel tempo e ragionevolmente argomentata [2], di ricorrere ad una disciplina ecclesiastica riconosciuta da tempi immemorabili nella Chiesa e assolutamente lecita, nei luoghi in cui è stata adottata, a prescindere dall’attuale emergenza pandemica: la Comunione nella mano, che non è affatto un abuso liturgico come affermato in maniera incosciente e temeraria da alcuni.

Infatti, la possibilità di amministrare e ricevere la Comunione anche nella mano, recuperando l’uso dei primi secoli della storia della Chiesa, è stata una possibilità rimessa alla discrezione delle Conferenze episcopali nazionali (sempre ovviamente dietro conferma della Santa Sede) da San Paolo VI mediante l’istruzione della Sacra Congregazione per il Culto Divino Memoriale Domini del 29 maggio 1969; tale possibilità è stata riaffermata dall’istruzione della Sacra Congregazione per la Disciplina dei Sacramenti Immensae caritatis (29 gennaio 1973), dalle premesse del Rito della Comunione fuori della Messa e Culto Eucaristico (17 giugno 1979, cf. n° 21), dalla Notificatio de s. Communione in manu distribuenda della Sacra Congregazione per il Culto Divino (3 aprile 1985, cf. nn° 3.4.7); tale possibilità, infine, è stata disciplinarmente adottata dalla Conferenza episcopale italiana, dopo aver ottenuto la prescritta recognitio della Santa Sede, con decreto del 19 luglio 1989. 

In tempi più recenti, la possibilità della comunione nella mano previa richiesta delle Conferenze episcopali e autorizzazione della Santa Sede è stata ribadita dalla Institutio Generalis Missalis Romani nella sua terza edizione tipica del 2002 e dall’istruzione Redemptionis sacramentum della Sacra Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti del 25 marzo 2004. Come è naturale, tutti questi documenti sono stati vidimati dalla Santa Sede ovvero dai coevi Papi, quindi oltre che di san Paolo VI hanno ricevuto il placet anche di san Giovanni Paolo II [3]; da ultimo Papa Francesco ha ricordato la possibilità della Comunione nella mano, nei luoghi dove è stata autorizzata, nell’Udienza generale del 21 marzo 2018. 

Sulla scorta, dunque, di questa più che consolidata e legittimata possibilità, pensare che i vescovi italiani in questo tempo di coronavirus ci stiano imponendo di compiere un sacrilegio o un abuso nel chiederci di ricevere la Comunione nella mano significa non soltanto ignorare il loro magistero e l’autorità pontificia che lo ha confermato, ma anche disconoscere la parola del Divino Maestro il quale ha chiaramente detto ai suoi discepoli e apostoli: «Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me. E chi disprezza me disprezza colui che mi ha mandato» (Lc 10,16); «In verità, in verità io vi dico: chi accoglie colui che io manderò, accoglie me; chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato» (Gv 13,20); e dell’Apostolo Paolo il quale così si è rivolto ai pastori delle Chiese: «Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha costituiti come custodi per essere pastori della Chiesa di Dio, che si è acquistata con il sangue del proprio Figlio» (At 20,28).

È chiaro che un singolo pastore può sbagliare e farsi tramite opaco della volontà del Signore (e quanto più in questa sconvolgente pandemia è stata esperienza comune, dai vescovi ai virologi, quella di dover navigare a vista!), ma non è lecito al fedele – e materia di peccato anche grave – diffidare riottosamente di quanto i vescovi dispongono collegialmente nel loro magistero ordinario, secondo le leggi della Chiesa e il Diritto canonico cui ogni fedele è vincolato: «Non proprio un assenso di fede, ma un religioso ossequio dell’intelletto e della volontà deve essere prestato alla dottrina, che sia il Sommo Pontefice sia il Collegio dei Vescovi enunciano circa la fede e i costumi, esercitando il magistero autentico, anche se non intendono proclamarla con atto definitivo; i fedeli perciò procurino di evitare quello che con essa non concorda» (can. 752) [4].

Rifiutare di ascoltare quello che i nostri vescovi, in comunione col Papa, ci chiedono ufficialmente e pubblicamente di fare [5] e correre al contempo a infarcirsi la testa di contro-informazioni pescate nella rete da questo o quest’altro studioso o prelato, da questa o quest’altra mistica o veggente [6] che parla a titolo esclusivamente personale e non è in alcuna maniera rappresentativo o rappresentativa dell’insegnamento della Chiesa Cattolica, se perpetrato con ostinazione, è un atteggiamento che macchia la coscienza e indispone ad una retta ricezione della Comunione eucaristica molto più di quanto lo farebbe un’indegna ricezione fisica, sulle mani non lavate ad esempio, o sulla lingua ma senza aver fatto precedere il debito digiuno. 

È un atteggiamento, soprattutto, che avvelena l’anima, instilla sfiducia, corrompe il senso di comunione nella Chiesa, fa credere che ci siano piani demoniaci ovunque nei confronti dei quali i nostri pastori sarebbero vittime più o meno complici. La santa madre Chiesa gerarchica, da amare e cui obbedire sempre e docilmente, da nostra madre diventa in tal modo una povera ebete da correggere con la matita rossa e blu, come se ne fossimo noi la madre, senza fede nella promessa di Nostro Signore che «le potenze degli inferi non preverranno su di essa» (Mt 16,18) ma anzi tenendola in dispregio, agendo e pensando come se tali potenze avessero già da tempo prevalso.

E la Comunione nel fazzoletto?

In tal modo, si disprezzano gli orientamenti disciplinari legittimamente dati dai vescovi e dalla Santa Sede, e se ne adottano altri dati privatamente e senza alcun mandato ecclesiastico, come quelli propalati da coloro che inculcano nei fedeli la moda di usare dei fazzoletti per ricevere la Comunione in mano [7]: questo sì un vero abuso liturgico che non trova riscontro in nessun documento disciplinare attualmente vigente e che espone il fedele che fa uso di tali pannolini al rischio di reali profanazioni per il suo non essere stato debitamente istruito su come purificare un tessuto che è stato a contatto con le santissime specie eucaristiche (per non parlare poi del rischio di facilitare il lavoro ai malintenzionati che potrebbero meglio sottrarre alla vista dei ministri il furto dell’Eucaristia, fingendo di adoperare questo sistema). E insieme a questi ricettacoli di stoffa, l’uso di piattini di metallo o simili, sempre più in voga in questi ultimi tempi da parte di coloro che non vogliono «sottomettersi all’abuso di ricevere la Comunione nelle mani», è stato addirittura fatto in passato oggetto di scomunica dal Concilio Quinisesto con queste motivazioni più attuali che mai:

«Il divino Apostolo a gran voce proclama che l’uomo creato a immagine di Dio è corpo di Cristo e tempio (cf. 1Cor 12,27; 2Cor 6,16). Ergendosi, quindi, al di sopra di tutta la creazione sensibile, e avendo raggiunto una dignità celeste in virtù della passione salvifica, mangiando e bevendo Cristo armonizza la sua anima e il suo corpo alla vita eterna, santificandosi mediante la partecipazione alla divina grazia. Perciò se qualcuno desidera prendere parte all’immacolato Corpo durante la sinassi e unirvisi essenzialmente, ponga le sue mani a forma di croce e, avvicinandosi, così riceva la Comunione alla grazia. Ciò perché ripudiamo coloro che fabbricano certi recipienti d’oro, o di qualsiasi altro materiale, da usare al posto della loro mano per ricevere il dono divino, chiedendo di prendere la santa Comunione in tali ricettacoli: essi preferiscono la materia inanimata e un elemento inferiore all’immagine di Dio [che essi sono]. Nel caso, quindi, che qualcuno sia colto nell’atto di amministrare la santa Comunione a coloro che presentano tali ricettacoli, sia scomunicato sia lui stesso sia coloro che li presentano» (can. 101) [8].

“Bella come la luna, fulgida come il sole, terribile come schiera ordinata…”

Dell’attualità di questi atteggiamenti, ricorrenti nella storia della Chiesa, Papa Francesco ha ben parlato in questo brano della sua splendida esortazione apostolica Evangelii gaudium, additando «il neopelagianesimo autoreferenziale e prometeico di coloro che in definitiva fanno affidamento unicamente sulle proprie forze e si sentono superiori agli altri perché osservano determinate norme o perché sono irremovibilmente fedeli ad un certo stile cattolico proprio del passato. È una presunta sicurezza dottrinale o disciplinare che dà luogo ad un elitarismo narcisista e autoritario, dove invece di evangelizzare si analizzano e si classificano gli altri, e invece di facilitare l’accesso alla grazia si consumano le energie nel controllare. In entrambi i casi, né Gesù Cristo né gli altri interessano veramente. Sono manifestazioni di un immanentismo antropocentrico».

Nondimeno, siamo certi che coloro che avvertono disagio nel ricevere la Comunione nella mano non vanno affatto classificati secondo queste parole; vivono tale disagio in buona fede e con retta coscienza, per un sincero amore per Gesù Sacramentato e per zelo nei suoi confronti, consolidato nella pratica di ricevere la Comunione sulla lingua. In moltissimi casi costoro sono nostri parrocchiani esemplari, collaboratori generosi e dediti nel servizio quotidiano. Spesso sono anche di stimolo per tutti nel ricevere la santissima Eucaristia con le debite disposizioni interiori ed esteriori. A questo riguardo, prendendo esempio dal loro zelo, non sarebbe forse fuori luogo riproporre le catechesi auspicate dai vescovi italiani nel 1989 prima della reintroduzione della prassi di ricevere la Comunione nella mano, rammentando ai fedeli la debita riverenza con cui questa prassi va vissuta: nella postura del corpo, nei movimenti delle mani, nella risposta orale, nell’attenzione a non disperdere eventuali frammenti: di modo che sia espressa la debita devozione e non sia data impressione alcuna di sciatteria. 

Non possiamo tuttavia non ricordare a coloro che a buon diritto preferiscono la Comunione sulla lingua che tale lodevolissima pratica è stata soltanto differita [9] – quod differtur non aufertur – e che non c’è alcuna sotterranea campagna abolizionista come troppi cattivi maestri insegnano. Senza sterili allarmismi, si dorma sereni e fiduciosi fra le braccia della nostra madre la santa Chiesa e si colga questo drammatico frangente come opportunità per comprendere meglio, con le parole di san Paolo VI, che se nell’Eucaristia v’è una presenza reale da onorare, essa può e deve essere onorata con tutto il nostro essere: lingua, mani e cuore docile; e che non meno reale [10] è la presenza di Cristo da onorare nella Sua Parola [11], nel povero [12], in quella santa Comunione che è la Chiesa: «Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Mt 18,20). E Comunione gerarchica, in cui i fedeli obbediscono ai pastori e i pastori sono al servizio dei fedeli, quale acies ordinata che il santo Concilio di Trento non disdegna di paragonare alla Sposa del Cantico dei Cantici: «Chi è costei che sorge come l’aurora, bella come la luna, fulgida come il sole, terribile come schiera ordinata?» (Ct 6,9) [13].

 

NOTE 

2)  Ogni ministro sa bene che, nel distribuire l’Eucaristia sulla lingua, è praticamente impossibile non venire a contatto con le particelle di saliva del fedele e pertanto, in caso di persona affetta da coronavirus, il contagio sarebbe praticamente automatico non solo per il ministro ma soprattutto per i successivi fedeli in attesa di ricevere la Comunione dal medesimo ministro. La raccomandazione di distribuire la Comunione nella mano è stata ulteriormente ribadita dal Viminale e accolta dalla Conferenza Episcopale Italiana in data 26 giugno 2020, come pubblicato sul sito internet della medesima e nei comunicati ufficiali delle diocesi italiane. Con sana elasticità, è chiaro che possono essere state riconosciute in questa o quell’altra diocesi deroghe, per casi particolari ed eccezionali, rispetto all’indirizzo generale di non dare la comunione sulla lingua finché non sia rientrata l’emergenza della pandemia. 

3)  Il quale, nella lettera Dominicae cenae del 24 febbraio 1980, deplorando le mancanze di rispetto che si erano potute verificare nel ricevere l’Eucaristia nella mano da parte di alcuni fedeli, puntualizza che queste mancanze non sono certo da imputarsi a tale pratica in sé e che «scrivendo questo non ci si vuole in alcun modo riferire a quelle persone che, ricevendo il Signore Gesù sulla mano, lo fanno con spirito di profonda riverenza e devozione, nei paesi dove questa pratica è stata autorizzata» (cf. n°11).

4) Non si dimentichi che la Chiesa nella sua materna sapienza concede anche il diritto e il dovere a manifestare il proprio pensiero e le proprie riserve, in taluni casi, ferma restando la «cristiana obbedienza» ai suoi pastori: cf. can. 212 del Codice di diritto canonico. Utilissima in questo ambito anche l’istruzione della Congregazione per la Dottrina della Fede Donum veritatis sulla perfettibilità dei pronunciamenti magisteriali e sui termini di un legittimo dissenso teologico: «Se, malgrado un leale sforzo, le difficoltà persistono, è dovere del teologo far conoscere alle autorità magisteriali i problemi suscitati dall’insegnamento in se stesso, nelle giustificazioni che ne sono proposte o ancora nella maniera con cui è presentato. Egli lo farà in uno spirito evangelico, con il profondo desiderio di risolvere le difficoltà. Le sue obiezioni potranno allora contribuire ad un reale progresso, stimolando il Magistero a proporre l’insegnamento della Chiesa in modo più approfondito e meglio argomentato. In questi casi il teologo eviterà di ricorrere ai “mass-media” invece di rivolgersi all’autorità responsabile, perché non è esercitando in tal modo una pressione sull’opinione pubblica che si può contribuire alla chiarificazione dei problemi dottrinali e servire la verità […]. Davanti ad un’affermazione, alla quale non sente di poter dare la sua adesione intellettuale, il suo dovere è di restare disponibile per un esame più approfondito della questione. Per uno spirito leale ed animato dall’amore per la Chiesa, una tale situazione può certamente rappresentare una prova difficile. Può essere un invito a soffrire nel silenzio e nella preghiera, con la certezza che se la verità è veramente in causa, essa finirà necessariamente per imporsi» (nn° 30-31). 

5) Riguardo all’obbedienza nei confronti delle disposizioni sanitarie cf. ad esempio le parole di Papa Francesco: «In questo tempo nel quale si incomincia ad avere disposizioni per uscire dalla quarantena, preghiamo il Signore perché dia al suo popolo, a tutti noi, la grazia della prudenza e dell’obbedienza alle disposizioni perché la pandemia non torni» (omelia della Messa a Santa Marta del 28 aprile 2020); «La fase acuta dell’epidemia è superata, anche se rimane la necessità – ma state attenti, non cantare vittoria prima, non cantare troppo presto vittoria! – di seguire con cura le norme vigenti, perché sono norme che ci aiutano a evitare che il virus vada avanti» (Angelus del 7 giugno 2020) 

6) Riguardo al retto atteggiamento che le vere sante e le vere mistiche assumono nei confronti delle legittime autorità ecclesiastiche si contempli l’esempio di santa Teresa d’Avila, Dottore della Chiesa: «Quando il Signore mi dava un comando nell’orazione e il confessore me n’imponeva un altro, Sua Maestà tornava a dirmi di stare alla parola del confessore» (Vita 26,5); o di santa Teresa di Lisieux, anch’ella Dottore della Chiesa: «O Madre, da quale inquietudini ci si libera facendo voto di obbedienza! Come sono felici le religiose semplici: poiché la loro unica bussola è la volontà dei superiori, sono sempre sicure di essere sul giusto cammino, non temono di sbagliarsi nemmeno se a loro sembra certo che i superiori sbaglino. Ma quando si smette di guardare la bussola infallibile, quando ci si allontana dalla via che ci indica di seguire con la scusa di fare la volontà di Dio il quale non illumina bene coloro che tuttavia fanno le sue veci, subito l’anima si smarrisce tra i sentieri aridi dove l’acqua della grazia le viene a mancare immediatamente» (Storia di un’anima, Ms C 11r°).

7)  Molto citato nei blog tradizionalisti è il suggerimento di S. E. Mons. Athanasius Schneider, il quale ha addirittura proposto di cucire un apposito corporale dentro un purificatoio da porre sulla mano destra, senza ovviamente poter addurre alcun documento disciplinare vigente a supporto di tale fantasiosa pratica. Se proprio si volesse trovarne uno, bisognerebbe paradossalmente risalire alle risoluzioni del sinodo locale di Auxerre (585) che, in un contesto in cui era obbligatoria per tutti la Comunione nella mano, prescrivevano alle sole donne, per motivi che oggi sarebbero più che discutibili, l’uso di porre sulla mano un pannolino, detto «linteum dominicale», nell’atto di ricevere l’Eucaristia.

8) Nostra traduzione dal testo originale greco riportato in Labbé-Cossart, Sacrosancta Concilia ad Regiam editionem exacta, Venezia 1729, vol. VII, col. 1392.

9)  Come espresso dall’istruzione Redemptionis sacramentum al n° 92 il fedele ha normalmente «sempre il diritto di ricevere, a sua scelta, la santa Comunione in bocca»: ma questa affermazione non va certo letta in maniera fondamentalistica come se non ammettesse eccezioni, stabilite dalle stesse autorità ecclesiastiche che hanno concesso tale diritto, dettate da situzioni di estrema gravità ed eccezionalità quali l’attuale pandemia mondiale di coronavirus. Cf. Institutio Generalis Missalis Romani, n° 282: «I pastori d’anime […] insegnino che nell’amministrazione dei Sacramenti, salva la loro sostanza, la Chiesa ha il potere di determinare o cambiare ciò che essa ritiene più conveniente per la venerazione dovuta ai Sacramenti stessi e per l’utilità di coloro che li ricevono, secondo la diversità delle circostanze, dei tempi e dei luoghi».

10) «Tale presenza si dice “reale” non per esclusione, quasi che le altre non siano “reali”, ma per antonomasia perché è sostanziale, e in forza di essa, infatti, Cristo, Uomo-Dio, tutto intero si fa presente» (Paolo VI, lettera enciclica Mysterium fidei, n° 40)

11) «Vi voglio esortare con esempi tratti dalla pratica religiosa. Voi che siete soliti partecipare ai divini misteri, quando ricevete il corpo del Signore, sapete bene come custodirlo con ogni precauzione e venerazione, affinché non ne cada una minima briciola e non si perda nessuna parte del dono consacrato. Infatti vi credereste colpevoli, e giustamente vi riterreste tali, se per vostra negligenza se ne perdesse qualcosa. Ora, se giustamente ponete tanta precauzione nel custodire il suo Corpo, come potete ritenere che sia colpa minore l’aver trascurato il Verbo di Dio, anziché il suo Corpo?» (Origene, Omelie sull’Esodo, Omelia 13,3).

12) «Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non permettere che sia oggetto di disprezzo nelle sue membra cioè nei poveri, privi di panni per coprirsi. Non onorarlo qui in chiesa con stoffe di seta, mentre fuori lo trascuri quando soffre per il freddo e la nudità. Colui che ha detto: “Questo è il mio corpo”, confermando il fatto con la parola, ha detto anche: Mi avete visto affamato e non mi avete dato da mangiare (cfr. Mt 25, 42), e: “Ogni volta che non avete fatto queste cose a uno dei più piccoli tra questi, non l’avete fatto neppure a me” (cfr. Mt 25, 45). Il corpo di Cristo che sta sull’altare non ha bisogno di mantelli, ma di anime pure; mentre quello che sta fuori ha bisogno di molta cura. Impariamo dunque a pensare e a onorare Cristo come egli vuole. Infatti l’onore più gradito che possiamo rendere a colui che vogliamo venerare è quello che lui stesso vuole, non quello escogitato da noi. Anche Pietro credeva di onorarlo impedendo a lui di lavargli i piedi. Questo non era onore, ma vera scortesia. Così anche tu rendigli quell’onore che egli ha comandato, fa’ che i poveri beneficino delle tue ricchezze. Dio non ha bisogno di vasi d’oro, ma di anime d’oro […] Che vantaggio può avere Cristo se la mensa del sacrificio è piena di vasi d’oro, mentre poi muore di fame nella persona del povero? Prima sazia l’affamato, e solo in seguito orna l’altare con quello che rimane. […] Pensa la stessa cosa di Cristo, quando va errante e pellegrino, bisognoso di un tetto. Tu rifiuti di accoglierlo nel pellegrino e adorni invece il pavimento, le pareti, le colonne e i muri dell’edificio sacro. Attacchi catene d’argento alle lampade, ma non vai a visitarlo quando lui è incatenato in carcere. Dico questo non per vietarvi di procurare tali addobbi e arredi sacri, ma per esortarvi a offrire, insieme a questi, anche il necessario aiuto ai poveri, o, meglio, perché questo sia fatto prima di quello. Nessuno è mai stato condannato per non aver cooperato ad abbellire il tempio, ma chi trascura il povero è destinato alla geenna, al fuoco inestinguibile e al supplizio con i demoni. Perciò mentre adorni l’ambiente del culto, non chiudere il tuo cuore al fratello che soffre. Questi è un tempio vivo più prezioso di quello» (San Giovanni Crisostomo, Omelie sul Vangelo di Matteo, Omelia 50,3-4).

13) Cf. Sessione XXIII, cap. IV.

 

Pubblicato il 20/9/2020 su Vatican Insider

 

 

Sogno comunità aperte, umili, cariche di speranza

 

Carissime amiche, carissimi amici,

in questi giorni si è acceso un dibattito sulle Messe: aprire o aspettare ancora? In realtà la vita di tutti ci sta dicendo di pensare a cose più urgenti: il dolore di chi ha perso un famigliare, senza neppure poterlo salutare; l’angoscia di chi ha perso il lavoro e fatica ad arrivare a fine mese; il peso di chi ha tenuto chiuso un’attività per tutto questo tempo e non sa come e se riaprirà; i ragazzi e i giovani che non hanno potuto seguire lezioni regolari a scuola; i genitori che devono con fatica prendersi cura dei figli rimasti a casa tutto il giorno; la ripresa economica con un impoverimento generale… Queste sono questioni che mi porto in cuore e sulle quali, come Chiesa di Pinerolo, stiamo cercando di fare il possibile. E’ in gioco il futuro del nostro territorio. A questo dedico la maggior parte delle mie poche forze in questi giorni, mettendoci mente e cuore. La questione serissima è: “Non è una parentesi!”. Vorrei che l’epidemia finisse domani mattina e la crisi economica domani sera. Ma non sarà così. In ogni caso questo periodo di pandemia e di crisi non è una semplice parentesi. Molti pensano: “Questa parentesi si è aperta ad inizio marzo, si chiuderà e torneremo alla società e alla Chiesa di prima”. No. E’ una bestemmia, un’ingenuità, una follia. Questo tempo parla, ci parla. Questo tempo urla. Ci suggerisce di cambiare. La società che ci sta alle spalle non era la “migliore delle società possibili”. Vi ricordate quanti “brontolamenti” facevamo fino a febbraio? Bene, questo è il tempo per sognare qualcosa di nuovo. Quella era una società fondata sull’individuo. Tutti eravamo ormai persuasi di essere “pensabili a prescindere dalle nostre relazioni”. Tutti eravamo convinti che le relazioni fossero un optional che abbellisce la vita. Una ciliegina sulla torta, un dolcetto a fine pasto. In questo isolamento ci siamo resi conto che le relazioni ci mancano come l’aria. Perché le relazioni sono vitali, non secondarie. Noi siamo le relazioni che costruiamo. Ciò significa riscoprire la “comunità”. Gli altri, la società sono una fortuna e noi ne siamo parte viva. Il mio paesino, il mio quartiere, la mai città sono la mia comunità: sono importanti come l’aria che respiro e devo sentirmi partecipe. L’abbiamo scoperto, ora proviamo a viverlo. Non è una parentesi, ma una nascita. La nascita di una società diversa. Non sprechiamo quest’occasione! Una società che riscopre la comunità degli umani, l’essenzialità, il dono, la fiducia reciproca, il rispetto della terra. Ne ho parlato nella mia lettera “Vuoi un caffè?”. Forse possiamo rileggerla oggi come stimolo per sognare e costruire una società nuova.
In secondo luogo mi rivolgo ai credenti. Non basta tornare a celebrare per pensare di aver risolto tutto. “Non è una parentesi”. Non dobbiamo tornare alla Chiesa di prima. O iniziamo a cambiare la Chiesa in questi mesi o resterà invariata per i prossimi 20 anni. Per favore ascoltiamo con attenzione ciò che ci sussurra questo tempo e ciò che meravigliosamente ci dice Papa Francesco. Vi ricordate cosa dicevamo fino a fine febbraio? In ogni incontro ci lamentavamo che la gente non viene più a Messa, i bambini del catechismo non vengono più a Messa, i giovani non vengono più a Messa. Vi ricordate? Ed ora pensiamo di risolvere tutto celebrando nuovamente la Messa con il popolo? Io credo all’importanza della Messa. Quando celebro mi “immergo”, ci metto il cuore, rinasco, mi rigenero. So che è “culmine e fonte” della vita del credente. E sogno dall’8 di marzo di poter avere la forza per tornare a presiedere un’Eucarestia. Ma in modo netto e chiaro vi dico che non voglio più una Chiesa che si limiti a dire cosa dovete fare, cosa dovete credere e cosa dovete celebrare, dimenticando la cura le relazioni all’interno e all’esterno. Abbiamo bisogno di riscoprire la bellezza delle relazioni all’interno, tra catechisti, animatori, collaboratori e praticanti. Abbiamo bisogno di creare in parrocchia un luogo dove sia bello trovarsi, dove si possa dire: “Qui si respira un clima di comunità, che bello trovarci!”. E all’esterno, con quelli che non frequentano o compaiono qualche volta per “far dire una messa”, far celebrare un battesimo o un funerale. Sogno cristiani che amano i non praticanti, gli agnostici, gli atei, i credenti di altre confessioni e di altre religioni. Questo è il vero cristiano. Sogno cristiani che non si ritengono tali perché vanno a Messa tutte le domeniche (cosa ottima), ma cristiani che sanno nutrire la propria spiritualità con momenti di riflessione sulla Parola, con attimi di silenzio, momenti di stupore di fronte alla bellezza delle montagne o di un fiore, momenti di preghiera in famiglia, un caffè offerto con gentilezza. Non cristiani “devoti” (in modo individualistico, intimistico, astratto, ideologico), ma credenti che credono in Dio per nutrire la propria vita e per riuscire a credere alla vita nella buona e nella cattiva sorte. Non comunità chiuse, ripiegate su se stesse e sulla propria organizzazione, ma comunità aperte, umili, cariche di speranza; comunità che contagiano con propria passione e fiducia. Non una Chiesa che va in chiesa, ma una Chiesa che va a tutti. Carica di entusiasmo, passione, speranza, affetto. Credenti così riprenderanno voglia di andare in chiesa. Di andare a Messa, per nutrirsi. Altrimenti si continuerà a sprecare il cibo nutriente dell’Eucarestia. Guai a chi spreca il pane quotidiano (lo dicevano già i nostri nonni). Guai a chi spreca il “cibo” dell’Eucarestia. Solo con questa fame potremo riscoprire la fortuna della Messa. E solo in questo modo riscopriremo la voglia di diventare un regalo per gli altri, per l’intera società degli umani.
Buon cammino a tutti. Insieme. Vi porto in cuore.

Con affetto e stima.

+ Derio, Vescovo

 

 

 

Momento straordinario di preghiera in tempo di epidemia

Meditazione del Santo Padre

 

«Venuta la sera» (Mc 4,35). Così inizia il Vangelo che abbiamo ascoltato. Da settimane sembra che sia scesa la sera. Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città; si sono impadronite delle nostre vite riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante, che paralizza ogni cosa al suo passaggio: si sente nell’aria, si avverte nei gesti, lo dicono gli sguardi. Ci siamo trovati impauriti e smarriti. Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca… ci siamo tutti. Come quei discepoli, che parlano a una sola voce e nell’angoscia dicono: «Siamo perduti» (v. 38), così anche noi ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo, ma solo insieme.

È facile ritrovarci in questo racconto. Quello che risulta difficile è capire l’atteggiamento di Gesù. Mentre i discepoli sono naturalmente allarmati e disperati, Egli sta a poppa, proprio nella parte della barca che per prima va a fondo. E che cosa fa? Nonostante il trambusto, dorme sereno, fiducioso nel Padre – è l’unica volta in cui nel Vangelo vediamo Gesù che dorme –. Quando poi viene svegliato, dopo aver calmato il vento e le acque, si rivolge ai discepoli in tono di rimprovero: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?» (v. 40).

Cerchiamo di comprendere. In che cosa consiste la mancanza di fede dei discepoli, che si contrappone alla fiducia di Gesù? Essi non avevano smesso di credere in Lui, infatti lo invocano. Ma vediamo come lo invocano: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?» (v. 38). Non t’importa: pensano che Gesù si disinteressi di loro, che non si curi di loro. Tra di noi, nelle nostre famiglie, una delle cose che fa più male è quando ci sentiamo dire: “Non t’importa di me?”. È una frase che ferisce e scatena tempeste nel cuore. Avrà scosso anche Gesù. Perché a nessuno più che a Lui importa di noi. Infatti, una volta invocato, salva i suoi discepoli sfiduciati.

La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. Ci dimostra come abbiamo lasciato addormentato e abbandonato ciò che alimenta, sostiene e dà forza alla nostra vita e alla nostra comunità. La tempesta pone allo scoperto tutti i propositi di “imballare” e dimenticare ciò che ha nutrito l’anima dei nostri popoli; tutti quei tentativi di anestetizzare con abitudini apparentemente “salvatrici”, incapaci di fare appello alle nostre radici e di evocare la memoria dei nostri anziani, privandoci così dell’immunità necessaria per far fronte all’avversità.

Con la tempesta, è caduto il trucco di quegli stereotipi con cui mascheravamo i nostri “ego” sempre preoccupati della propria immagine; ed è rimasta scoperta, ancora una volta, quella (benedetta) appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci: l’appartenenza come fratelli.

«Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Signore, la tua Parola stasera ci colpisce e ci riguarda, tutti. In questo nostro mondo, che Tu ami più di noi, siamo andati avanti a tutta velocità, sentendoci forti e capaci in tutto. Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta. Non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato. Ora, mentre stiamo in mare agitato, ti imploriamo: “Svegliati Signore!”.

«Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Signore, ci rivolgi un appello, un appello alla fede. Che non è tanto credere che Tu esista, ma venire a Te e fidarsi di Te. In questa Quaresima risuona il tuo appello urgente: “Convertitevi”, «ritornate a me con tutto il cuore» (Gl 2,12). Ci chiami a cogliere questo tempo di prova come un tempo di scelta. Non è il tempo del tuo giudizio, ma del nostro giudizio: il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è. È il tempo di reimpostare la rotta della vita verso di Te, Signore, e verso gli altri. E possiamo guardare a tanti compagni di viaggio esemplari, che, nella paura, hanno reagito donando la propria vita. È la forza operante dello Spirito riversata e plasmata in coraggiose e generose dedizioni. È la vita dello Spirito capace di riscattare, di valorizzare e di mostrare come le nostre vite sono tessute e sostenute da persone comuni – solitamente dimenticate – che non compaiono nei titoli dei giornali e delle riviste né nelle grandi passerelle dell’ultimo show ma, senza dubbio, stanno scrivendo oggi gli avvenimenti decisivi della nostra storia: medici, infermiere e infermieri, addetti dei supermercati, addetti alle pulizie, badanti, trasportatori, forze dell’ordine, volontari, sacerdoti, religiose e tanti ma tanti altri che hanno compreso che nessuno si salva da solo. Davanti alla sofferenza, dove si misura il vero sviluppo dei nostri popoli, scopriamo e sperimentiamo la preghiera sacerdotale di Gesù: «che tutti siano una cosa sola» (Gv 17,21). Quanta gente esercita ogni giorno pazienza e infonde speranza, avendo cura di non seminare panico ma corresponsabilità. Quanti padri, madri, nonni e nonne, insegnanti mostrano ai nostri bambini, con gesti piccoli e quotidiani, come affrontare e attraversare una crisi riadattando abitudini, alzando gli sguardi e stimolando la preghiera. Quante persone pregano, offrono e intercedono per il bene di tutti. La preghiera e il servizio silenzioso: sono le nostre armi vincenti.

«Perché avete paura? Non avete ancora fede?». L’inizio della fede è saperci bisognosi di salvezza. Non siamo autosufficienti, da soli; da soli affondiamo: abbiamo bisogno del Signore come gli antichi naviganti delle stelle. Invitiamo Gesù nelle barche delle nostre vite. Consegniamogli le nostre paure, perché Lui le vinca. Come i discepoli sperimenteremo che, con Lui a bordo, non si fa naufragio. Perché questa è la forza di Dio: volgere al bene tutto quello che ci capita, anche le cose brutte. Egli porta il sereno nelle nostre tempeste, perché con Dio la vita non muore mai.

Il Signore ci interpella e, in mezzo alla nostra tempesta, ci invita a risvegliare e attivare la solidarietà e la speranza capaci di dare solidità, sostegno e significato a queste ore in cui tutto sembra naufragare. Il Signore si risveglia per risvegliare e ravvivare la nostra fede pasquale. Abbiamo un’ancora: nella sua croce siamo stati salvati. Abbiamo un timone: nella sua croce siamo stati riscattati. Abbiamo una speranza: nella sua croce siamo stati risanati e abbracciati affinché niente e nessuno ci separi dal suo amore redentore. In mezzo all’isolamento nel quale stiamo patendo la mancanza degli affetti e degli incontri, sperimentando la mancanza di tante cose, ascoltiamo ancora una volta l’annuncio che ci salva: è risorto e vive accanto a noi. Il Signore ci interpella dalla sua croce a ritrovare la vita che ci attende, a guardare verso coloro che ci reclamano, a rafforzare, riconoscere e incentivare la grazia che ci abita. Non spegniamo la fiammella smorta (cfr Is 42,3), che mai si ammala, e lasciamo che riaccenda la speranza.

Abbracciare la sua croce significa trovare il coraggio di abbracciare tutte le contrarietà del tempo presente, abbandonando per un momento il nostro affanno di onnipotenza e di possesso per dare spazio alla creatività che solo lo Spirito è capace di suscitare. Significa trovare il coraggio di aprire spazi dove tutti possano sentirsi chiamati e permettere nuove forme di ospitalità, di fraternità, di solidarietà. Nella sua croce siamo stati salvati per accogliere la speranza e lasciare che sia essa a rafforzare e sostenere tutte le misure e le strade possibili che ci possono aiutare a custodirci e custodire. Abbracciare il Signore per abbracciare la speranza: ecco la forza della fede, che libera dalla paura e dà speranza.

«Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Cari fratelli e sorelle, da questo luogo, che racconta la fede rocciosa di Pietro, stasera vorrei affidarvi tutti al Signore, per l’intercessione della Madonna, salute del suo popolo, stella del mare in tempesta. Da questo colonnato che abbraccia Roma e il mondo scenda su di voi, come un abbraccio consolante, la benedizione di Dio. Signore, benedici il mondo, dona salute ai corpi e conforto ai cuori. Ci chiedi di non avere paura. Ma la nostra fede è debole e siamo timorosi. Però Tu, Signore, non lasciarci in balia della tempesta. Ripeti ancora: «Voi non abbiate paura» (Mt 28,5). E noi, insieme a Pietro, “gettiamo in Te ogni preoccupazione, perché Tu hai cura di noi” (cfr 1 Pt 5,7).

Libreria Editrice Vaticana

 

 

 

Pregare in questo tempo

“Il cristiano non insiste nel pregare perché gli tocca convincere un Dio spilorcio a dargli qualcosina in più, o perché pensa di dover dare istruzione a un Dio un po’ lontano dai problemi reali, così da ottenere quanto ha capito di avere bisogno. Noi non sappiamo di cosa abbiamo davvero bisogno, nemmeno quando saliamo sulla cattedra del dolore. Il famoso “chiedete (assai istruttiva l’assenza di specificazione dell’oggetto) e vi sarà dato” ha senso piuttosto quale luogo in cui apprendiamo a essere figli.

L’insistenza, cioè la domanda rivolta a Dio instancabilmente, ci trasforma e ci purifica, affina e accresce la nostra percezione di Lui.

Già il chiedere è esaudimento, perché ci rende umili, ci fa riconoscere che abbiamo bisogno di tutto, come i bambini piccoli.

Il semplice (non facile) continuare a chiedere ci fa vivere da figli che tutto ricevono dal Padre, ci rende consapevoli di questa realtà beata che è il saperci oggetto della sua indefettibile premura.

Di più: la preghiera di questi giorni – che potrà senz’altro essere povera, fiacca, ripetitiva, confusa, malagevole, ardua, etc. – è il luogo in cui, mentre apprendiamo la nostra figliolanza, riceviamo anche di quanto nutrire gli altri.

In effetti, nella nostra preghiera che si mette nel solco di quella di Gesù, possiamo trovare la forza per vivere l’attuale subbuglio planetario contemplando il Padre già che sta tessendo nuova vita, già sta trasformando il male in bene, già sta facendo avanzare il Regno, già sta rinnovando il cuore di quanti si mettono, come figlie e figli, nelle sue mani”.

don Luca CASTIGLIONI

 

 

 

Come celebrare l’Eucaristia al tempo del Coronavirus?

La sofferta decisione dei Vescovi di sospendere le Messe per evitare il diffondersi del contagio nasce da un amore sincero per la Chiesa fatta di volti, di storie, di persone, che il Signore, grazie all’Eucaristia, costituisce come suo corpo

Riflessione di don Pierpaolo CASPANI – Docente presso il Seminario di Milano

Problemi a proposito della celebrazione dell’eucaristia ce ne sono sempre stati. Ne sa qualcosa San Paolo che, nella prima lettera ai cristiani di Corinto, li rimprovera per il modo in cui «mangiano la cena del Signore», per il modo cioè in cui celebrano la messa. E dichiara che ogni comportamento indegno nei confronti del pane e del calice di quella cena rappresenta un reato contro il corpo e il sangue del Signore (1Cor 11,27). Non solo: il comportamento indegno nei confronti della cena del Signore (della messa) è la causa delle malattie e delle morti che colpiscono la Chiesa di Corinto (1Cor 11,30). «Ecco – dice qualcuno – già allora, come anche oggi con il Coronavirus, arriva il momento in cui Dio castiga chi si comporta in modo indegno, soprattutto nei confronti di una realtà così importante come l’eucaristia».

In realtà, il testo di Paolo, letto come si deve, non ci autorizza a pensare che l’Apostolo vedesse nelle malattie e nelle morti dei cristiani di Corinto una punizione inflitta da Dio. Lo si capisce se mettiamo a fuoco bene in cosa consisteva il comportamento indegno dei Corinti nei confronti dell’eucaristia: consisteva nel mangiare e bere il pane e il vino dell’eucaristia «senza riconoscere il corpo del Signore». Che non significava ricevere la comunione senza credere alla presenza reale del Signore nel pane dell’eucaristia (cosa che nessuno si sarebbe sognato di mettere in dubbio!). Significava invece partecipare alla celebrazione e comunicarsi senza riconoscere che questo gesto ci unisce ai nostri fratelli, facendoci diventare con essi un solo corpo: il corpo di Cristo che è la Chiesa. Questo era il comportamento di non pochi cristiani di Corinto: partecipavano alla cena del Signore senza curarsi dei fratelli più poveri e fragili, i quali – trascurati – si ammalavano e in qualche caso morivano. È questo il «non riconoscere il corpo del Signore» di cui parla San Paolo: non riconoscere il suo corpo ecclesiale, che è il frutto dell’eucaristia o, come dice la teologia classica, è la realtà dell’eucaristia.

È la sollecitudine per questa realtà dell’eucaristia che spinge oggi i pastori delle Chiese italiane alla sofferta decisione di sospendere la celebrazione eucaristica, per evitare il diffondersi del contagio legato al Coronavirus. Una decisione che nasce dalla consapevolezza che, in questa situazione, il modo migliore per pascere il gregge loro affidato è quello di evitare comportamenti che espongano soprattutto i più fragili al rischio di andare incontro alla malattia e forse anche alla morte. Una decisione che tiene conto degli sforzi, al limite dell’eroismo, che medici e infermieri stanno mettendo in campo per assistere i malati, rischiando essi stessi la vita.

Qualcuno ha attribuito la scelta di sospendere le messe in questo tempo drammatico all’ateismo pratico di pastori, che vedrebbero le realtà più sacre della fede cristiana (l’ostia consacrata, anzitutto) solo come immagini, segni, vuoti simboli… Questa scelta drammatica nasce invece da un amore sincero per la realtà dell’eucaristia: la Chiesa fatta di volti, di storie, di persone concrete, che il Signore, grazie all’eucaristia, costituisce come suo corpo.

Questo stesso amore mi è invece difficile vederlo in chi – mentre sconsideratamente invoca una più frequente e intensa celebrazione di messe – non si sottrae alla tentazione di approfittare di una situazione così grave per gettare ancora una volta fango su quei pastori della Chiesa in comunione coi quali ogni messa viene celebrata.

PUBBLICATO SUL SITO DELLA DIOCESI DI MILANO GIOVEDÌ 12 MARZO 2020

 

 

Una opportunità di conversione? – Lettera del parroco

Carissimi,  quest’anno la nostra quaresima è segnata dalla condizione inedita e preoccupante nella quale ci troviamo e che coinvolge tutti.

La questione è seria e stiamo toccando con mano la nostra fragilità e la difficoltà di riuscire a governare la situazione con risposte condivise ed efficaci.

Il senso di incertezza, la paura, la tentazione di chiuderci nella preoccupazione esclusiva per noi stessi è forte. 

Possiamo diventare più freddi ed egoisti, aumentando le paure nei confronti degli altri. Possiamo incattivirci nella lamentela e nella critica a tutto e a tutti.

Oppure possiamo cogliere questa dura necessità come una opportunità feconda per la nostra conversione.

Potremmo, ad esempio, riscoprire che la nostra testimonianza cristiana si gioca anche nel dimostrarsi cittadini coscienti ed collaborativi che accettano di agire responsabilmente secondo le direttive ricevute da chi è chiamato a  dare gli indirizzi per il bene comune.

Questa esperienza potrebbe aiutarci a sentirci meno “onnipotenti”,  forse anche meno saccenti;  potrebbe indurci a divenire più consapevoli  che “o ci si salva insieme o ci si perde” e potrebbe farci riscoprire il valore rigenerante di un tempo rallentato e vuoto di tante iniziative. 

Come ci ha incoraggiati il nostro Arcivescovo, è forse il momento di moltiplicare la fantasia e la creatività dell’amore che sa trovare strade sempre nuove e praticabili per costruire solidarietà, rafforzare le relazioni ed essere vicino a chi è più debole.

Gli inevitabili disagi che la vita della comunità si trova ad affrontare con la sospensione delle nostre celebrazioni comunitarie, e delle possibilità di incontrarsi e di fare attività insieme, possono diventare occasione per riscoprire forme di relazione con Dio che magari abbiamo dimenticato: la preghiera in famiglia, la preghiera personale e in piccoli gruppi fatta di ascolto della Parola di Dio, di silenzio meditativo, di contemplazione del Crocifisso. Il Vangelo della Messa delle  Ceneri ci suggeriva: “Quando preghi, entra nella tua camera e prega il Padre tuo nel segreto…”. E non sarebbe propizia l’occasione per intensificare la preghiera d’intercessione nella quale affidiamo al Padre i nostri fratelli e ci lasciamo rendere più disponibili alla condivisione? 

Anche il digiuno quaresimale potrebbe essere riscoperto come la consapevole e generosa rinuncia a qualche spazio della nostra libertà o delle nostre abitudini, per contribuire al bene comune. Forse sperimenteremo in modo più concreto cosa significa togliere qualcosa a noi stessi, rinunciando non al superfluo, ma a ciò che ci preme. 

La creatività dell’amore potrebbe inoltre sfruttare i mezzi della tecnologia, che a volte ci impoverisce nelle relazioni, ma in questo caso può diventare un’ottima chance. A questo proposito mi sembra una coincidenza provvidenziale l’essere riusciti ad attivare questo nostro sito parrocchiale proprio in questi giorni.

Siamo arrivati anche noi (finalmente!) e proprio ora che può diventare uno strumento preziosissimo, non solo per aprirci alla comunicazione con tutti, ma anche per tenerci in contatto e non allentare i legami comunitari che ci uniscono. 

Sì, carissimi, non lasciamoci scoraggiare dalla situazione: senza nasconderci l’apprensione e le inevitabili paure, potremo però scoprire ancora una volta la verità della parola di Paolo: “Chi ci potrà separare dall’amore di Dio in Cristo Gesù”? Tutto possiamo trasformare in occasione di grazia perché l’amore di Cristo ci sostiene e ci spinge; ci offre un orizzonte di speranza che supera anche la paura della morte. Chissà che anche come comunità non usciamo da questo periodo rafforzati e resi testimoni più credibili dell’evangelo? 

d.Andrea